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I focolarini : una vita per l'unità

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I focolarini hanno dato il nome al Movimento dei Focolari. Vivono in piccole comunità di laici, i Focolari: cuore di tutte le realtà di cui il movimento si compone e si impegnano a mantenere vivo il ‘fuoco’ da cui deriva il nome focolare.

Sono uomini e donne che lavorano e mettono in comune i loro beni. Li ha attratti Dio e a Lui hanno dato la loro vita, fermamente convinti del Suo amore. Hanno lasciato padre, madre, famiglia, patria per contribuire a realizzare la preghiera di Gesù: “Che tutti siano uno”(Gv 17,21).

Si possono trovare alle Nazioni Unite e accanto agli ammalati e ai poveri nelle periferie delle metropoli, in fabbrica e in territori di “frontiera”,  nei grattacieli e nelle favelas, nei villaggi e nelle capitali. Vogliono rendere presente Gesù secondo le parole della scrittura “Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”(Mt 18,20). Quest’esperienza di unità con Dio è la forza che li porta a gettare ponti di pace, ad accendere luci di speranza nell’oscurità, a rispondere con l’amore alla violenza. Ogni spacco, ogni divisione come una calamita perché lì l’unità è più urgente e necessaria e per essa bisogna spendersi.

Nel mondo i focolarini e le focolarine di diverse nazionalità, razza e anche credo sono complessivamente 7160, in 742 focolari,  presenti in 83 paesi.

Potrebbe far pensare a loro lo scritto di Chiara Lubich,  “La grande attrattiva del tempo moderno: penetrare nella più alta contemplazione e rimanere mescolati tra tutti,… Vorrei dire di più, perdersi nella folla per informarla del divino… Fatti partecipi dei disegni di Dio sull’umanità, segnare sulla folla ricami di luce e, nel contempo, dividere col prossimo l’onta, la fame, le percosse, le brevi gioie.”

Alcuni focolarini sono ordinati sacerdoti a servizio del Movimento.

Questo fuoco ha contagiato anche persone sposate, fedeli al loro stato di vita e al contempo membri del focolare, per la radicale scelta di vivere il Vangelo. Primo dei focolarini sposati è stato Igino Giordani. Quando entrambi gli sposi condividono questa vita si hanno le famiglie focolari: coniugi disponibili, secondo la situazione familiare, a spostarsi in altre parti del mondo dove la loro presenza può essere un contributo fondamentale all’unità.

E’ una vita impegnativa quella dei focolarini, non esente da difficoltà o fallimenti che sentono ‘materia prima’ per dire a Dio che, in questo impegno per l’unità, Lui è tutto e loro nulla. Ma, con Dio, tutto è possibile!

Tutto è cominciato con Chiara Lubich la fondatrice del Movimento dei Focolari che definisce  il focolare “…immagine della famiglia di Nazareth, una convivenza, in mezzo al mondo, di persone vergini e coniugate, tutte donate, anche se in maniera differente, a Dio”.

Il Movimento Gen

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1966 – Nascita del Movimento Gen.
Chiara Lubich così si esprime il 6 luglio ad un incontro di bambine dei Focolari: «Questo è un giorno storico, perchè è la prima volta che il S.Padre riceve le bambine del Movimento dei Focolari! (…) Proprio oggi avevo l’intenzione di far nascere ufficialmente sia la sezione delle bambine, sia la sezione delle giovanette del Movimento. Tutto questo, però, vale anche per i bambini e per i giovanetti».

Chiara Lubich con le gen, 19681967 – “Giovani di tutto il mondo, unitevi!”. È l’appello che Chiara rivolge ai giovani e ragazzi che fanno parte del Movimento; propone loro di: “Chiamare a raccolta il più gran numero possibile di ragazzi del mondo e lanciare una grandiosa rivoluzione al grido di ‘uniamoci!’”. “Una rivoluzione d’amore”, espliciterà, che ha per fine la realizzazione del testamento di Gesù: “Che tutti siano uno”. Dall’adesione di migliaia di giovani in tutto il mondo a questo programma nasce “la generazione nuova” del Movimento dei Focolari.

1968 – Un gesto simbolico ne delinea la fisionomia: la consegna ai Gen di un trofeo, che rappresenta il passaggio di una bandiera dalla prima alla seconda generazione; su di essa sono scritte due frasi: “Che tutti siano uno” (Gv 17,21) e “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mt 27,46). La prima definisce il programma, la seconda il segreto per attuarlo.

All’interno del Movimento Gen si delineeranno poi, progressivamente, le seguenti distinzioni in fasce di età.

Gen 2

Sono sparsi in tutto il mondo e appartenenti alle più diverse culture, estrazioni sociali, religioni ed anche non professanti un credo religioso; rappresentano  la seconda generazione del Movimento dei Focolari di cui condividono interamente il carisma.

Hanno scoperto che vivere il Vangelo determina una vera e propria rivoluzione nelle loro vite, una rivoluzione capace di cambiare il mondo: si impegnano così a viverlo con coraggio e determinazione. Sanno che la forza e la perseveranza deriva loro dalla presenza di Gesù, da Lui stesso promessa “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20).

È per questo che si radunano periodicamente in piccoli gruppi, detti “Unità Gen 2”, dove cercano di mantenere sempre viva questa presenza di Gesù in mezzo a loro; lì, inoltre, condividono le esperienze della vita della Parola aiutandosi e incoraggiandosi vicendevolmente.

I Gen 2 sono i principali animatori del Movimento Giovani per un Mondo Unito attraverso il quale incidono nel sociale promuovendo la fraternità universale.

Gen 3

Gen3Ragazzi tra 9 e i 17 anni, i gen 3 sono la terza generazione del Movimento dei Focolari. La loro caratterizzazione, all’interno del Movimento Gen, risale al 1970, quando Chiara notando la loro spiccata personalità ben diversa da quella dei più grandi, propone di dedicare loro una formazione specifica e distinta.

Fiorisce così un gran numero di ragazzi che vivono l’Ideale dell’unità con convinzione e radicalità; come è tipico della loro età, non si lasciano scoraggiare dalle difficoltà o dalla negatività del mondo, i gen 3 vivono per portare l’unità in tutti gli ambienti della loro vita: in famiglia, a scuola, con gli amici…

Il programma dei Gen 3 si ritrova in quanto ha detto Chiara su di loro:

«I Gen 3 puntano molto in alto (…) Si sono accorti che nel mondo, nella storia, tra chi ha più inciso profondamente, vi sono i santi: hanno trascinato le folle, hanno portato tante persone a Dio, hanno cambiato socialmente il mondo (…). [I Gen 3] Vogliono essere – e non stupitevi – una generazione di santi».

Intorno ai Gen 3 si raccoglie un gran numero di ragazzi e ragazze che, desiderosi di condividere lo stesso stile di vita, costituiscono, a più largo raggio, il Movimento Ragazzi per l’unità. Insieme percorrono diverse vie che chiamano ‘sentieri’ e che si traducono in iniziative locali e internazionali per costruire il mondo unito.

Gen 4 – Gen 5

Come accade in ogni famiglia, un posto privilegiato è riservato per i bambini: sono i Gen 4, dai 4 agli 8 anni, e i Gen 5, i più piccoli, fino ai 4 anni.

Particolarmente sensibili all’amore, imparano a viverlo concretamente attraverso l’esempio di quanti vivono la spiritualità dell’unità; scoprono che quest’amore, quando è reciproco, porta la presenza di Gesù, che imparano a conoscere e con cui creano un rapporto semplice e diretto.

Attraverso i loro incontri internazionali, vengono in contatto con bambini e adulti di diverse culture e religioni, sperimentano fin da piccoli l’essere tutti figli di un unico Padre, aprendosi così naturalmente alla mondialità.

Gen4 con il dado d'amoreOgni mattina lanciano il dado dell’amore (proposto loro da Chiara) le cui facce riportano ciascuna un punto dell’arte d’amare – amare tutti, amare per primi, “farsi uno” con l’altro, vedere Gesù nell’altro, amare il nemico e amarsi a vicenda –: il motto che esce è quello che cercheranno di vivere durante tutta la giornata, comunicandosene poi le esperienze e la gioia scoperta nell’amare il prossimo.

Fanno conoscere questo “dado dell’amore” a compagni di scuola, amici, parenti: ci sono ormai classi e scuole intere, gruppi parrocchiali e progetti educativi che hanno fatto proprio il dado.

In particolare l’amore li spinge a vivere la cultura del dare in tanti modi: dare un sorriso, dare una mano, dare compagnia, dare parte della merenda, dare consolazione, dare una gioia, dare un aiuto ai poveri, dare perdono… Scoprono così che “Quando si ama si è felici, e se si ama sempre, si è felici sempre!”.

Dio Amore

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Chiara Lubich e le sue prime compagne, nell’infuriare della guerra, avevano preso l’abitudine di ritrovarsi nei rifugi antiaerei appena suonava la sirena che annunciava un nuovo bombardamento. Era troppo forte il desiderio delle ragazze di Trento di stare insieme, di scoprire sempre nuovi modi di essere cristiani, di mettere in pratica il Vangelo, dopo quella folgorante intuizione che le aveva portate a mettere Dio Amore al centro dei loro interessi, al centro – unico e assoluto – della loro giovane vita.

«Ogni avvenimento ci toccava profondamente – dirà più tardi Chiara -. La lezione che Dio ci offriva attraverso le circostanze era chiara: tutto è vanità delle vanità, tutto passa. Ma, contemporaneamente, Dio metteva nel mio cuore, per tutte, una domanda, e con essa la risposta: “Ma ci sarà un ideale che non muore, che nessuna bomba può far crollare e a cui dare tutte noi stesse?”. Sì, Dio. Decidemmo di far di lui l’ideale della nostra vita».

Scrive Chiara nel 2000: «Dio. Dio, che in mezzo al furore della guerra, frutto dell’odio, sotto l’azione di una grazia particolare, si manifestò per quello che egli veramente è: amore. La prima idea-forza su cui lo Spirito ha costruito questa spiritualità è stata dunque: Dio amore (Cf. 1Gv 4,8).

«Quale mutamento porta nelle persone questa verità, compresa in maniera completamente nuova, al contatto col carisma del movimento! La vita cristiana condotta prima, pur con una pratica coerente, appare al confronto adombrata d’orfanezza. Ora, infatti, ecco la scoperta: Dio è amore, Dio è Padre! Il nostro cuore, vissuto nell’esilio della notte della vita, s’apre e sale e s’unisce con colui che lo ama, che pensa a tutto, che conta persino i capelli del capo.

«Le circostanze gioiose e dolorose acquistano un nuovissimo significato: tutto è previsto e voluto dall’amore di Dio. Nulla più può farci paura. È una fede, questa, esaltante, che fortifica, che fa esultare. È una fede che fa piangere chi la sperimenta le prime volte. È un dono di Dio che ci fa gridare: «Noi abbiamo creduto all’amore» (Gv1 4,16). Con la scelta di Dio, che è amore, come ideale della vita, si poneva il primo cardine, la prima esigenza di quella nuova spiritualità che era sbocciata nei nostri cuori. Avevamo, dunque, trovato colui per cui vivere, Dio amore».

La volontà di Dio

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Quale doveva essere l’atteggiamento da avere per dimostrare a Dio che era proprio lui il centro di ogni loro interesse? Chiara e le sue prime compagne si domandavano in effetti come mettere in pratica il loro nuovo ideale di vita, Dio Amore. Apparve ben presto quasi ovvio: dovevano a loro volta amare Dio. Non avrebbero avuto alcun senso le loro vite se non fossero state «una piccola fiamma di questo infinito braciere: amore che risponde all’Amore».

E parve loro un grande e sublime dono quello di avere la possibilità di amare Dio, al punto che ripetevano spesso: «Non è tanto che si debba dire: “Dobbiamo amare Dio”, ma: “Oh! Poterti amare, Signore! Poterti amare con questo piccolo cuore”». Si ricordarono allora che nel Vangelo una frase non lasciava e non lascia scampo a chi voglia condurre una coerente vita cristiana: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli» (Mt 7,21). Fare la volontà di Dio, dunque, era la grande possibilità che tutte loro avevano di amare Dio. E così Dio e la sua volontà coincidevano.

Scriverà Chiara: «Dio era come il sole. E a ciascuno di noi arrivava di esso un raggio: la divina volontà su di me, sulla mia compagna, sull’altra. Unico il sole, vari i raggi, anche se sempre “raggi di sole”. Unico Dio, unica volontà, varia per ciascuno, anche se sempre volontà di Dio. Bisognava camminare nel proprio raggio senza scostarsene mai. E camminarvi nel tempo che ci era dato. Non era il caso di divagare sul passato o fantasticare sul futuro. Occorreva abbandonare il passato alla misericordia di Dio, giacché non era più in nostro possesso; e il futuro sarebbe stato vissuto con pienezza allorché divenuto presente.

«Solo il presente era in mano nostra. In quello, affinché Dio regnasse nella nostra vita, avremmo dovuto concentrare mente, cuore, forze, nell’adempimento della sua volontà. Come un viaggiatore in treno non pensa di passeggiare per la vettura, onde arrivare prima alla meta, ma, seduto, si lascia portare, così l’anima nostra, per arrivare a Dio, avrebbe dovuto compiere la sua volontà, con interezza, nel momento presente, perché il tempo cammina da sé. E non sarebbe stato estremamente difficile capire ciò che Dio avrebbe voluto da noi. Egli manifestava i suoi voleri attraverso i superiori, la Sacra Scrittura, i doveri del proprio stato, le circostanze, le ispirazioni… Minuto per minuto illuminate e aiutate dalla grazia attuale, avremmo costruito l’edificio della nostra santità; o meglio, facendo la volontà di un Altro – di Dio stesso – egli avrebbe edificato sé in noi.

«Dunque fare la volontà di Dio non significa solo “rassegnazione”, come spesso s’intende, ma la più grande avventura divina che possa toccare a una persona: quella di seguire non la propria meschina volontà, non i propri limitati progetti, bensì Dio, e realizzare il disegno che egli ha per ogni suo figlio; disegno divino, impensabile, ricchissimo. E il far la volontà di Dio è stata per noi la scoperta d’una via di santità fatta per tutti. La volontà di Dio, infatti, giacché la può vivere ognuno, in qualsiasi luogo, situazione o vocazione si trovi, può essere la carta d’accesso delle folle alla santità. Fare la volontà di Dio per amarlo è divenuto il secondo cardine della nostra spiritualità dell’unità».

LA PAROLA

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Il Vangelo. L’avventura dell’unità avviata da Chiara Lubich aveva un solo “testo”: la Bibbia, il Vangelo, la Parola di Dio. Per loro solo nelle pagine del Vangelo esisteva quella vita che portava a Dio. Fu in quel periodo che, non a caso, prese corpo una pratica, peraltro già intuita da Chiara quando ancora era maestra, che diventerà generalizzata per tutto il mondo focolarino, e non solo: la “Parola di vita”. Vivevano una frase del Vangelo e la novità, per quel tempo, consisteva nel fatto che Chiara e le sue prime compagne, per stimolarsi reciprocamente e per crescere insieme, si raccontavano i frutti che il vivere la Parola aveva provocato nelle loro vite.

Scriveva Chiara: «Siamo sempre nei tempi di guerra. Ogniqualvolta suona la sirena dell’allarme aereo, possiamo portare con noi nel rifugio solo un piccolo libro: il Vangelo. Lo apriamo e quelle parole, pur già tanto conosciute, per il nuovo carisma s’illuminano come se sotto s’accendesse una luce, ci infiammano il cuore e siamo spinte a metterle subito in pratica. Tutte ci attirano e cerchiamo di viverle ad una ad una. Io leggo, ad esempio, per tutte: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 19,19). Il prossimo. Dov’era il prossimo? Era lì, vicino a noi, in tutte quelle persone colpite dalla guerra, ferite, senza vestito, senza casa, affamate e assetate. E immediatamente ci dedichiamo ad esse in molti modi.

«Il Vangelo assicura: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7,7). Chiediamo per i poveri e – cosa straordinaria in tempo di guerra – siamo ogni volta riempiti di ogni ben di Dio! Un giorno, e questo è uno dei primi episodi che spesso si racconta, un povero mi ha domandato un paio di scarpe n° 42. Sapendo che Gesù si era immedesimato con i poveri, ho rivolto al Signore, nella chiesa di Santa Chiara vicina all’allora omonimo ospedale, questa preghiera: «Dammi un paio di scarpe n° 42 per te in quel povero». Uscita di lì, una signorina mi porge un pacco. Lo apro: c’era un paio di scarpe n° 42.

«Leggiamo nel Vangelo: “Date e vi sarà dato” (Lc 6,38). Diamo, diamo ed ecco ogni volta il ritorno. Vi è una sola mela in casa quel giorno. La diamo al povero che chiede. E vediamo in mattinata arrivarne, magari da un parente, una dozzina. Diamo pure quelle ad altri che chiedono, e in serata ne arriva una valigia. Così, sempre così.

«Sono episodi, l’uno dietro l’altro, che stupiscono e incantano. La nostra gioia è grande e contagiosa. Gesù aveva promesso e anche ora mantiene. Egli non è, dunque, una realtà solo del passato, ma del presente. E il Vangelo è vero. Questa costatazione mette le ali al nostro cammino da poco intrapreso. E comunichiamo a chi s’incuriosisce della nostra felicità in tempi e ore così tristi, ciò che sta accadendo; ed essi non avvertono tanto di imbattersi in alcune ragazze o in un movimento nascente, quanto in Gesù vivo».

Il fratello

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L’avventura delle ragazze di Trento riunite attorno a Chiara non poteva lasciare indifferente la popolazione della città, allora di poche decine di migliaia di abitanti, né tanto meno la Chiesa tridentina. Il comportamento delle ragazze della “casetta” di Piazza Cappuccini, sede del primo “focolare”, sbalordiva grandi e piccoli. In quel modesto appartamento i poveri erano di casa. Addirittura il problema sociale della città, dissanguata dalla guerra, era un problema che le ragazze sentivano loro. Credevano addirittura di riuscirlo a risolvere, semplicemente credendo alla verità delle parole del Vangelo. Amando il fratello, uno dopo l’altro.

Scriveva Chiara: «Fra tutte le Parole, ci furono subito sottolineate dal nostro carisma quelle riguardanti specificamente l’amore evangelico verso ogni prossimo, e non solo verso i poveri, quando abbiamo letto nel Vangelo che Gesù aveva detto: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli (e s’intende tutti), l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Allora il nostro vecchio modo di concepire il prossimo e di amarlo è crollato. Se Cristo era in qualche modo in tutti, non si potevano fare discriminazioni, non si potevano avere preferenze. Sono saltati all’aria i concetti umani che classificano gli uomini: connazionale o straniero, vecchio o giovane, bello o brutto, antipatico o simpatico, ricco o povero, Cristo era dietro ciascuno, Cristo era in ciascuno. E un “altro Cristo” era realmente ogni fratello – se la grazia arricchiva la sua anima –, o un “altro Cristo”, un Cristo in fieri – se ancora lontano da lui.

«Vivendo così, ci siamo accorti che il prossimo era per noi la strada per arrivare a Dio. Anzi, il fratello ci è parso come un arco sotto il quale era necessario passare per incontrare Dio. E lo si è sperimentato fin dai primi giorni. Quale unione con Dio la sera, alla preghiera, o nel raccoglimento, dopo averlo amato tutto il giorno nei fratelli! Chi ci dava quella consolazione, quell’unzione interiore così nuova, così celeste, se non Cristo che viveva il “date e vi darà dato” (Lc 6,38) del suo Vangelo? Lo avevamo amato tutto il giorno nei fratelli ed ecco che ora lui amava noi. E di quale utilità ci è stato questo dono interiore! Erano le prime esperienze della vita spirituale, della realtà d’un regno che non è di questa terra. Così, nel meraviglioso cammino che lo Spirito ci mostrava, l’amore al fratello fu un nuovo cardine della nostra spiritualità».

 

L'amore reciproco

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Il Vangelo che Chiara Lubich e le sue compagne leggevano nei rifugi era una continua scoperta, era un libro che loro in fondo prima non conoscevano: nessuno gliene aveva mai parlato in quei termini. «Gesù agisce sempre da Dio. Per poco che dai, ti stracarica di doni. Sei sola e ti trovi circondata da mille madri, padri, fratelli, sorelle e d’ogni ben di Dio che poi distribuisci a chi non ha nulla».

Così per tutte loro si consolidava la convinzione, perché basata sull’esperienza, che non esistesse situazione umana problematica che non trovasse una risposta, esplicita o implicita, in quel piccolo libro che riportava parole di cielo.

Gli aderenti del movimento nascente si immergevano in esse, se ne nutrivano, si rievangelizzavano e sperimentavano che quanto Gesù diceva e prometteva si verificava immancabilmente.

Scriveva Chiara: «La guerra continuava. I bombardamenti si susseguivano. I rifugi non erano sufficientemente riparati e si affacciava la possibilità di comparire presto davanti a Dio. Tutto ciò faceva nascere nel nostro cuore un desiderio: mettere in pratica in quei momenti, che potevano essere gli ultimi della nostra vita, quella volontà di Dio che a lui stava più a cuore. Ci siamo ricordate allora del comandamento che Gesù dice suo e nuovo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 12-13)».

La scoperta del “comandamento nuovo” le infiammò a tal punto che l’amore reciproco divenne il loro habitus, il loro stesso modo di essere. Ed era quello stesso amore che attirava tanta gente, di ogni età e classe sociale, nelle loro riunioni. Amarsi reciprocamente non era per loro un optional, ma il loro stesso modo di essere e di presentarsi al mondo.

«Gesù, si diceva, come un emigrante, dalla propria patria ha portato fra noi i suoi usi e costumi. Dandoci il “suo” comandamento ha portato sulla terra la legge del Cielo, che è l’amore fra i tre della Santissima Trinità. Ci siamo guardate in faccia e abbiamo deciso: «Io voglio essere pronta a morire per te, io per te, tutte per ciascuna.»

«Ma, se dovevamo esser pronte a dare la vita l’una per l’altra, era logico che, intanto, occorreva rispondere alle mille esigenze che l’amore fraterno richiedeva: occorreva condividere le gioie, i dolori, i pochi beni, le proprie esperienze spirituali. Ci siamo sforzate di fare così perché fosse vivo tra noi, prima d’ogni altra cosa, l’amore reciproco».

«Un giorno, nel primo focolare, prelevammo le nostre poche e povere cose dall’armadio, e le ammucchiammo nel centro della stanza, per poi dare a ciascuna quel poco che le era utile e il superfluo ai poveri. Pronte a mettere lo stipendio in comune, e tutti i piccoli e grandi beni che avevamo o avremmo avuto. Pronte a mettere in comune anche i beni spirituali… Lo stesso desiderio di santità era stato posposto nell’unica scelta: Dio, che escludeva ogni altro obiettivo, ma includeva, ovviamente, la santità che lui aveva pensato per noi».

«Allorché, poi, si trovarono ovvie difficoltà per le imperfezioni che ognuna di noi, prossima all’altra, portava, si decise di non guardarci con l’occhio umano, che scopre la pagliuzza dell’altro, dimentico della propria trave, ma con quello che tutto perdona e dimentica. E sentimmo così doveroso il perdono reciproco, a imitazione di Dio misericordioso, che si propose fra noi, con una specie di voto di misericordia: e cioè di alzarci ogni mattina e vederci come persone “nuove”, che mai erano incorse in quei difetti».

Gesù Eucaristia

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L’Eucaristia ha sempre avuto un ruolo importante nella vita di Chiara Lubichsin dall’infanzia. La sua vita personale e quella delle sue prime compagne – così come poi di tutto il movimento che si costituirà nei decenni – è stata marcata dall’Eucaristia. E non potrebbe essere che così, se si pensa che Gesù Eucarestia è l’anima, il cuore della vita stessa della Chiesa.

L’azione dello Spirito Santo provocava in Chiara per il carisma dell’unità che le è proprio, e nelle sue prime compagne una forte attrazione a Gesù nell’Eucaristia, al punto che non vedevano l’ora di recarsi a Messa, per condividere con Lui tutta la loro vita.

E più tardi, quando cominciarono a viaggiare per l’Italia, dal finestrino del treno cercavano nel paesaggio i campanili delle Chiese e si voltavano verso di essi: lì c’era l’Eucaristia, lì c’era il loro amore. Esiste un intreccio meraviglioso fra Eucaristia e spiritualità dell’unità.

Così si esprime Chiara su questo grandioso mistero: «Il fatto che il Signore, per dare inizio a questo vasto movimento, ci abbia concentrato sulla preghiera di Gesù per l’unità, significa che egli ci doveva spingere con forza verso Colui che solo la poteva attuare:  Gesù nell’Eucaristia.

Infatti, come i bambini appena nati si nutrono al seno materno istintivamente, senza sapere quello che fanno, così, sin dall’inizio del movimento, si è notato un fenomeno: chi ci avvicinava incominciava a frequentare la comunione ogni giorno.

Come spiegarlo? Quello che è l’istinto per il bambino neonato è lo Spirito Santo per l’adulto, neonato alla nuova vita che il Vangelo dell’unità porta. Egli è spinto al “cuore” della Madre Chiesa e si ciba del nettare più prezioso che essa abbia, nel quale sente di trovare il segreto della vita d’unità, e della propria divinizzazione.

Infatti il compito dell’Eucaristia è di farci Dio per partecipazione. Mescolando le carni vivificate dallo Spirito Santo e vivificanti del Cristo con le nostre, ci divinizza nell’anima e nel corpo. La Chiesa stessa si potrebbe definire: l’uno provocato dall’Eucaristia, perché composta da uomini e donne divinizzati, fatti Dio, uniti al Cristo che è Dio e fra loro.

Questo Dio con noi è presente in tutti i tabernacoli della terra e ha raccolto tutte le nostre confidenze, le nostre gioie, i nostri timori.

Quanto conforto Gesù Eucaristia ci ha portato nelle nostre prove, quando nessuno ci dava udienza perché il movimento doveva essere studiato! Egli era sempre lì, a tutte le ore, ad attenderci, a dirci: in fondo, il capo della Chiesa sono Io. E nelle lotte e nelle sofferenze d’ogni genere chi ci ha dato forza, tanto da pensare che saremmo morti molte volte se Gesù Eucaristia e Gesù in mezzo, che egli alimentava, non ci avessero sorretto?».

L'Unità

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Una spiritualità di comunione, collettiva, come diceva Paolo VI, è la via nuova di Chiara Lubich, nata dal Vangelo. Ma quali le sue caratteristiche? Quali gli episodi che, sin dagli inizi, portarono alla certezza di essere nati per contribuire all’unità degli uomini con Dio e fra loro? Scopriamolo insieme.

Nel 1944, nel mese di maggio, nella cantina oscura nella quale Natalia Dallapiccola, nel seminterrato della casa della sua famiglia, aveva trasferito la sua stanza, per proteggersi in qualche modo dagli eventuali bombardamenti, al lume di una candela Chiara e le sue amiche di Trento leggevano il Vangelo, come ormai era loro abitudine. Lo aprirono a caso, e capitarono sulla preghiera che Gesù pronuncia prima di morire: «Padre, che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). È, questo, un testo evangelico straordinario e complesso, il “testamento di Gesù”, studiato dagli esegeti e dai teologi di tutta la cristianità; ma in quell’epoca era un po’ dimenticato, perché misterioso ai più. Insomma, quel passaggio giovanneo sarebbe potuto sembrare non facile per ragazze come Chiara, Natalia, Doriana e Graziella. Ma intuirono che quella sarebbe stata “la” loro parola evangelica, l’unità.

Uno di quei giorni, a Trento, sul ponte Fersina, Chiara disse alle sue compagne: «Ho capito come dobbiamo amarci, secondo il Vangelo: sino a consumarci in uno». Più tardi, nel Natale 1946, venne scelta dalle ragazze come motto una frase radicale: «O l’unità o la morte». Scriverà Chiara nel 2000: «Un giorno mi trovavo lì con le mie compagne e, aprendo il piccolo libro, lessi: «Padre che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Era la preghiera di Gesù prima di morire. Per la sua presenza fra noi e per un dono del suo Spirito, mi parve di capire un po’ quelle parole difficili e forti, e mi nacque in cuore la convinzione che per quella pagina del Vangelo fossimo nate: per l’unità, e cioè per contribuire all’unità degli uomini con Dio e fra loro.

«Qualche tempo dopo, consce comunque della divina arditezza del programma che solo Dio poteva attuare, inginocchiate attorno a un altare, abbiamo chiesto a Gesù di realizzare quel suo sogno usando anche di noi se fosse stato nei suoi piani. Spesso, agli inizi, di fronte all’immensità del compito, ci coglievano le vertigini e, vedendo le folle che avremmo dovuto raccogliere in unità, ci prendeva lo sgomento.

Ma, piano piano, il Signore ci fece intendere dolcemente che il nostro compito era come quello di un bambino che getta un sasso nell’acqua. E, attorno a quel sasso, si snodano tanti cerchi sempre più grandi, che, se si vuole, si possono pensare indefiniti. Allora capimmo che noi avremmo dovuto far l’unità attorno a noi, nell’ambiente dove siamo, e che poi – passati di là in cielo – avremmo potuto osservare i cerchi allargantisi, fino a compiere, alla fine dei tempi, il piano di Dio. «Per noi fu chiaro, fin dal primo momento, che quest’unità aveva un solo nome: Gesù. Essere uno, per noi, significava esser Gesù, esser tutti Gesù. Infatti solo Cristo può far di due uno, perché il suo amore che è annullamento di sé, che è non egoismo, ci fa entrare fino in fondo nel cuore degli altri. «Quanto scrivevo in quei tempi tradisce la meraviglia di fronte ad una realtà soprannaturale così sublime: “L’Unità! ma chi potrà azzardarsi a parlare di lei? È  ineffabile come Dio! Si sente, si vede, si gode ma… è ineffabile! Tutti godono della sua presenza, tutti soffrono della sua assenza. È pace, gaudio, amore, ardore, clima di eroismo, di somma generosità. È Gesù fra noi!”».

Gesù crocefisso e abbandonato

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Nell’estate del ’49, Giordani raggiunge Chiara che si è recata per un periodo di riposo nella valle di Primiero, a Tonadico, sulle montagne del Trentino. Insieme alla comunità vivono intensamente il passaggio del Vangelo sull’abbandono di Gesù. Il 12 luglio Chiara scrive: «Gesù abbandonato! L’importante è che quando passa, noi stiamo attenti a sentire quello che ci vuole dire, perché ha sempre cose nuove da dirci. Gesù abbandonato ci vuole perfetti: è l’unico maestro Gesù ed egli si serve di tutte le circostanze per plasmarci, per smussare gli angoletti del nostro carattere, per santificarci. L’unica cosa che dobbiamo fare è prendere tutte queste voci delle circostanze come voce sua. Tutto ciò che succede attorno a me succede per me, è tutt’un’espressione corale dell’amore di Dio a me».

Alla fine di quell’estate, si trattò di scendere da Primiero nella città. Su un foglio di carta intestato della Camera dei deputati, prestatole da Giordani, Chiara scrisse allora di getto quel testo che inizia con un verso ormai celebre: «Ho un solo sposo sulla terra, Gesù abbandonato…». La discesa da quel “piccolo Tabor” marca l’annuncio che l’Abbandonato è la via all’unità: «Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita», era scritto in quel foglietto. Gesù Abbandonato è allora il “segreto” dell’unità.

Scriverà Chiara nel 2000: «Sin dall’inizio si è capito che il tutto ha un’altra faccia, che l’albero ha le sue radici. Il Vangelo ti copre d’amore, ma esige tutto. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore – si legge in Giovanni – rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Ne è la personificazione Gesù crocifisso, il cui frutto è stata la redenzione dell’umanità. Gesù crocifisso! In un episodio di quei primi mesi del 1944 abbiamo una nuova comprensione di lui. In una circostanza veniamo a sapere che il più grande dolore che Gesù ha sofferto, e quindi il suo più grande atto d’amore, è stato quando in croce ha sperimentato l’abbandono del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Siamo profondamente toccate da questo. E la giovane età, l’entusiasmo, ma soprattutto la grazia di Dio, ci spingono a scegliere proprio lui, nel suo abbandono, quale via per realizzare il nostro ideale d’amore.

«Da quel momento, ci è parso di scoprire il suo volto dovunque. Egli, che aveva sperimentato in sé la separazione degli uomini da Dio e fra loro, e aveva sentito il Padre lontano da sé, fu da noi ravvisato non solo in tutti i dolori personali, che non sono mancati, e in quelli dei prossimi, spesso soli, abbandonati, dimenticati, ma anche in tutte le divisioni, i traumi, gli spacchi, le indifferenze reciproche, grandi o piccole: nelle famiglie, fra le generazioni, fra poveri e ricchi; nella stessa Chiesa a volte; e, più tardi, fra le varie Chiese; come in seguito, fra le religioni e fra chi crede e chi è di diversa convinzione.

«Ma tutte queste lacerazioni non ci hanno spaventato; anzi, per l’amore a lui abbandonato, ci hanno attratto. Ed è stato lui ad insegnarci come affrontarle, come viverle, come concorrere a superarle quando, dopo l’abbandono, aveva rimesso il suo spirito nelle mani del Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»[1], dando così all’umanità la possibilità di ricomporsi in sé stessa e con Dio, e indicandole il modo. Egli ci si è manifestato perciò chiave dell’unità, rimedio a ogni disunità. Egli era colui che ricomponeva l’unità fra noi, ogni qualvolta si fosse incrinata. Egli era colui nel quale riconoscevamo e amavamo le grandi, tragiche divisioni dell’umanità e della Chiesa. Egli è divenuto il nostro unico Sposo. E la nostra convivenza con un tale Sposo è stata così ricca e feconda che mi ha spinto a scrivere un libro, come una lettera d’amore, come un canto, un inno di gioia e di gratitudine a lui.

[1] Lc 23, 46