Nell’estate del ’49, Giordani raggiunge Chiara che si è recata per un periodo di riposo nella valle di Primiero, a Tonadico, sulle montagne del Trentino. Insieme alla comunità vivono intensamente il passaggio del Vangelo sull’abbandono di Gesù. Il 12 luglio Chiara scrive: «Gesù abbandonato! L’importante è che quando passa, noi stiamo attenti a sentire quello che ci vuole dire, perché ha sempre cose nuove da dirci. Gesù abbandonato ci vuole perfetti: è l’unico maestro Gesù ed egli si serve di tutte le circostanze per plasmarci, per smussare gli angoletti del nostro carattere, per santificarci. L’unica cosa che dobbiamo fare è prendere tutte queste voci delle circostanze come voce sua. Tutto ciò che succede attorno a me succede per me, è tutt’un’espressione corale dell’amore di Dio a me».
Alla fine di quell’estate, si trattò di scendere da Primiero nella città. Su un foglio di carta intestato della Camera dei deputati, prestatole da Giordani, Chiara scrisse allora di getto quel testo che inizia con un verso ormai celebre: «Ho un solo sposo sulla terra, Gesù abbandonato…». La discesa da quel “piccolo Tabor” marca l’annuncio che l’Abbandonato è la via all’unità: «Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita», era scritto in quel foglietto. Gesù Abbandonato è allora il “segreto” dell’unità.
Scriverà Chiara nel 2000: «Sin dall’inizio si è capito che il tutto ha un’altra faccia, che l’albero ha le sue radici. Il Vangelo ti copre d’amore, ma esige tutto. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore – si legge in Giovanni – rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Ne è la personificazione Gesù crocifisso, il cui frutto è stata la redenzione dell’umanità. Gesù crocifisso! In un episodio di quei primi mesi del 1944 abbiamo una nuova comprensione di lui. In una circostanza veniamo a sapere che il più grande dolore che Gesù ha sofferto, e quindi il suo più grande atto d’amore, è stato quando in croce ha sperimentato l’abbandono del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Siamo profondamente toccate da questo. E la giovane età, l’entusiasmo, ma soprattutto la grazia di Dio, ci spingono a scegliere proprio lui, nel suo abbandono, quale via per realizzare il nostro ideale d’amore.
«Da quel momento, ci è parso di scoprire il suo volto dovunque. Egli, che aveva sperimentato in sé la separazione degli uomini da Dio e fra loro, e aveva sentito il Padre lontano da sé, fu da noi ravvisato non solo in tutti i dolori personali, che non sono mancati, e in quelli dei prossimi, spesso soli, abbandonati, dimenticati, ma anche in tutte le divisioni, i traumi, gli spacchi, le indifferenze reciproche, grandi o piccole: nelle famiglie, fra le generazioni, fra poveri e ricchi; nella stessa Chiesa a volte; e, più tardi, fra le varie Chiese; come in seguito, fra le religioni e fra chi crede e chi è di diversa convinzione.
«Ma tutte queste lacerazioni non ci hanno spaventato; anzi, per l’amore a lui abbandonato, ci hanno attratto. Ed è stato lui ad insegnarci come affrontarle, come viverle, come concorrere a superarle quando, dopo l’abbandono, aveva rimesso il suo spirito nelle mani del Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»[1], dando così all’umanità la possibilità di ricomporsi in sé stessa e con Dio, e indicandole il modo. Egli ci si è manifestato perciò chiave dell’unità, rimedio a ogni disunità. Egli era colui che ricomponeva l’unità fra noi, ogni qualvolta si fosse incrinata. Egli era colui nel quale riconoscevamo e amavamo le grandi, tragiche divisioni dell’umanità e della Chiesa. Egli è divenuto il nostro unico Sposo. E la nostra convivenza con un tale Sposo è stata così ricca e feconda che mi ha spinto a scrivere un libro, come una lettera d’amore, come un canto, un inno di gioia e di gratitudine a lui.
[1] Lc 23, 46